Il ruolo del “Fattore immateriale” in Macroeconomia
Per rilanciare l’economia, in presenza della moneta europea, non basta ridurre le tasse e incrementare i redditi. Serve una riforma che introduca un cambio strutturale riorganizzando il Sistema-Paese nella mentalità e nelle istituzioni con l’immissione di fattori extraeconomici capaci di dare più dinamismo alle imprese, più qualità e credibilità e più attenzione al quadro storico-culturale.
L’obiettivo che ci proponiamo è quello di fornire qualche spunto per affrontare i problemi che assillano il nostro Paese e impostare un cambiamento profondo della struttura della nostra economia, in modo da restituire al sistema crescita e competitività. Un intervento assolutamente necessario e immediato da fare, dato che la recessione internazionale non è ancora terminata e probabilmente deve ancora raggiungere il suo punto di minimo.
L’economia dell’Euro, iniziando a operare con l’entrata in vigore della moneta unica il 1° gennaio 2002, ha portato alla luce il problema della perdita del potere di acquisto dei salari e degli stipendi; un fenomeno che non si manifestava in maniera così evidente dalla fine degli anni Sessanta. Le cause di questa erosione sono:
– l’aumento dei prezzi;
– i redditi molto bassi: precariato occupazionale, pensioni minime insufficienti (più di due milioni di persone con un reddito mensile al di sotto dei 500 euro) e eccessiva incidenza della contribuzione previdenziale su salari, stipendi e onorari;
– l’eccessiva pressione fiscale e la mancanza di meccanismi efficaci di detassazione;
– i costi crescenti dei mutui;
– l’aumento delle spese per l’acquisto dei farmaci e per le cure mediche personali;
– l’eccessiva forza del sindacato nella contrattazione reddituale, che non permette ai lavoratori di partecipare agli utili delle aziende in modo da distribuire meglio la ricchezza prodotta;
– l’incremento spropositato delle tariffe: energia, autostrade, benzina, ecc.
La moneta e il fisco
Con l’economia dell’Euro nessuna leva di politica economica sembra efficace. La politica monetaria non è infatti più di competenza nazionale bensì europea (Banca Centrale Europea).
Questo significa avere a disposizione uno strumento in meno per intervenire sul sistema economico.
La politica fiscale è forse l’unica strada da percorrere, tanto è vero che tutti i dibattiti politici elettorali recenti hanno prospettato interventi mirati a diminuire le tasse e la contribuzione per incrementare il reddito disponibile delle famiglie e dei cittadini. Ma è davvero così? Purtroppo è lecito dubitarne. Basta prendere un manuale di economia politica per vedere che una politica keynesiana espansiva col decremento delle imposte, produce inflazione (“inflazione da domanda”) se non è accompagnata dalla crescita del sistema economico. Se a ciò aggiungiamo anche l’inflazione da costi, dovuta soprattutto all’incremento del prezzo del petrolio, rischiamo, nel breve periodo, di avere un forte incremento dei prezzi e un’ulteriore erosione dei redditi. Sicché tutti gli interventi di riduzione delle imposte e di aumento del reddito disponibile delle famiglie, come per esempio la cancellazione dell’Ici, rischiano da soli di essere inutili, in quanto completamente riassorbiti dalla parallela crescita dell’inflazione. Questa visione sembra essere confermata dalla ineccepibile condotta della BCE che intende adottare una politica di sostegno dei redditi dei cittadini attraverso azioni dirette di politica monetaria per controbilanciare la perdita di potere d’acquisto dei redditi medio-bassi e per riequilibrare i consumi scesi, in proporzione, ai livelli degli anni Ottanta, dato che i tassi di interesse sono prossimi allo zero.
Le due leve della politica economica, monetaria e fiscale, per agire positivamente sul sistema economico di un Paese devono essere utilizzate entrambe in modo da bilanciarne l’azione. Dato che questo non è più possibile in quanto è la BCE a gestire la politica monetaria, ne consegue che la politica fiscale da sola diventa inefficace per un singolo Paese comunitario, anzi rischia di produrre altra inflazione se espansiva. È ciò che si è verificato in Italia negli ultimi anni. I governi che si sono alternati alla guida del Paese hanno sempre manifestato l’intenzione di ridurre le tasse, con la conseguenza che questo “effetto annuncio” diventava aspettativa e quindi realtà economica, incidendo sui comportamenti degli operatori economici e generando inflazione da domanda.
I redditi e il lavoro
Potremmo dire che rimane ancora la politica dei redditi come terzo e ultimo strumento a disposizione di un governo per operare in economia. Essa incide più direttamente sull’efficienza distributiva e produttiva di un Paese. Tuttavia anche questa si rivela inefficace, in quanto si pone come obiettivo di fondo quello di riequilibrare i redditi all’interno di un sistema economico in sofferenza le cui cause sono da ricondursi principalmente alla competizione internazionale e al fatto che la struttura della nostra economia è ancora troppo dipendente dall’industria manifatturiera e da un terziario non molto avanzato (banche e assicurazioni), dove la competizione è ancora basata sul prezzo (costo) e poco sulla qualità e sui servizi ad alto valore aggiunto.
Oggi, più che mai, l’equazione “più lavoro = più reddito” è superata. Essa è sostituita dalla più moderna eguaglianza “più conoscenza = più reddito”. In Paesi come gli Stati Uniti sono le imprese ad alto valore cognitivo a prosperare, e ormai rappresentano quasi un quinto del Pil americano. Basti pensare a come è nata e si è affermata un’azienda come Google. In più, in Italia e in Europa c’è troppo capitalismo renano, troppo merchant banking, un’eccessiva presenza delle banche nel sistema economico, che ingessa le imprese. Si dovrebbe fare molto più ricorso al mercato e quindi al capitale di rischio per finanziarsi.
Dato che le tre leve principali di politica economica appaiono inefficaci, come può un governo intervenire in modo determinante nell’economia? Non ci sono altre soluzioni? Siamo destinati al declino e a essere raggiunti fra dieci anni da Paesi come la Romania? Dobbiamo uscire dalla moneta
unica o dall’Europa? Niente di tutto questo. Anzi, avere un euro forte – circa 1,4 dollari – su cui contare è sicuramente un beneficio. Una moneta debole accrescerebbe ancora di più l’inflazione e diminuirebbe il potere d’acquisto internazionale dei nostri redditi. Allora, cosa bisogna fare? Per quale via dobbiamo affrontare i problemi economici – e non solo – del nostro Paese?
Definiamo il Fattore Immateriale
Qui vogliamo proporre un nuovo parametro, da abbinare a quello fiscale, per dirigere le scelte in economia in modo da cambiare la struttura del nostro sistema produttivo per renderlo più adatto alla competizione globale.
Il parametro che definiamo “Fattore immateriale” prende spunto dalle recenti teorie economico-aziendali (microeconomiche) in base alle quali l’incidenza degli intangibles sulla performance aziendale risulta sempre più determinante. Il Fattore immateriale è fondamentale per spiegare i differenziali di efficienza dei fattori produttivi nei diversi sistemi economici, che si traducono in diverse velocità di crescita. Hardware (risorse naturali, risorse umane, ecc.) e software (tecnologia, management, ecc.), pure necessari, non sono sufficienti da soli a determinare la crescita economica. Per essere pienamente utilizzati dal sistema ai fini dello sviluppo dell’economia essi hanno bisogno di istituzioni, norme, mentalità, comportamenti appropriati, strategia e organizzazione.
Possiamo definire il Fattore immateriale come un indicatore del livello di organizzazione strutturale di un determinato sistema economico che comprende mentalità e istituzioni, dinamismo delle imprese di un Paese, qualità e credibilità, quadro storico-culturale, fattori extraeconomici non contemplati dalla modellistica, che però hanno una profonda influenza sull’economia, soprattutto in termini di efficienza e competitività.
Qualità di performance
È da ritenere che proprio nel Fattore immateriale risieda il problema attuale della bassa crescita dell’economia del nostro Paese e dell’Europa.
La qualità del Fattore immateriale è legata alla performance del sistema economico. Essa dipende a sua volta da quattro criteri:
1) ruolo delle aspettative. Ciò che rende attendibili gli individui e accresce l’affidabilità del sistema è la prevedibilità dei comportamenti: “ciascuno fa ciò che gli altri si aspettano da lui”;
2) l’orizzonte temporale. L’ottica adottata deve essere sempre il lungo periodo. Nel breve periodo si può garantire una certa efficienza allocativa, ma nel lungo periodo questa è compensata dall’efficienza produttiva e dalla creazione di politiche per dotarsi di fattori produttivi di cui un Paese è privo;
3) il binomio etica-orizzonte temporale. La somma di comportamenti motivati e orientati al lungo periodo dà vita a un Fattore immateriale di qualità elevata che fa prosperare il sistema economico;
4) il senso della comunità. È un elemento essenziale per valutare la compattezza di un sistema-Paese. Può darsi che un’azione svolta dal governo o da soggetti all’interno di un sistema economico sia efficiente ed equa, ma non è detto che aumenti il “senso della comunità”.
Applichiamo adesso questo nuovo strumento per analizzare e dare risposte ad alcune questioni fondamentali di politica economica. A proposito della politica industriale, è di primaria importanza effettuare una ristrutturazione del sistema produttivo da realizzarsi mediante un’azione coordinata tra il governo, i sindacati e le imprese, e in questo senso occorre facilitare spostamenti di risorse, sia
finanziarie che umane, da settori in declino a settori in ascesa, e anche orientare i consumi nel modo desiderato dalle imprese, dal governo o dai cittadini, senza ricorrere continuamente a strumenti legislativi e amministrativi. Fondamentali in quest’ottica sono la lealtà dei funzionari pubblici nei confronti del Paese e la fedeltà dei dirigenti delle grandi imprese nei confronti della propria azienda, al fine di garantirne la prosperità. È altresì necessario sviluppare imprese ad alto contenuto cognitivo, per favorire industrie meno inquinanti e dal futuro più promettente, disincentivando allo stesso tempo la voracità di materie prime e di energia.
Il costo del capitale deve essere mantenuto basso per consentire alle imprese di effettuare con facilità gli investimenti produttivi necessari. Ciò presuppone efficienza del sistema bancario: basso costo della raccolta dei depositi e basso costo del lavoro, che dovrebbe essere poco remunerato perché si tratta di un lavoro leggero, poco qualificato, che non richiede particolari abilità manuali e intellettuali.
Il mercato del lavoro è tematica assai delicata e a sua volta deve essere oggetto di riflessione critica. È determinante gestire meglio la risorsa lavoro, secondo questi principi:
- a) non deve esistere più l’uomo-funzione, ma un nuovo tipo di lavoratore con una preparazione polivalente, continuamente aggiornata attraverso meccanismi di istruzione permanente, in grado di svolgere più di un lavoro e destinato, nella sua vita, a svolgerne diversi, talvolta contemporaneamente e a tempo parziale;
- b) modificare il principio del reclutamento del management e dello sviluppo delle carriere da parte delle imprese. I colleghi, spesso compagni dello stesso corso di studi, devono essere assunti contemporaneamente nella stessa impresa per mantenere il gruppo unito. Conoscendosi già, il team di lavoro è più efficiente. Inoltre, per un individuo, salire la gerarchia aziendale, deve significare che il gruppo ne riconosce l’idoneità o la superiorità. Soltanto dopo nasce la legittimazione nella carriera;
- c) favorire la mobilità interna dei lavoratori e non solo quella esterna. In tal modo si tende a usare al meglio il capitale umano a vantaggio dell’impresa, ma anche a vantaggio del lavoratore, che sente così di svolgere un ruolo importante all’interno di un organismo complesso, al cui successo contribuisce con il proprio lavoro. Le imprese, inoltre, dovrebbero investire ingenti risorse nella formazione dei propri lavoratori, sia per favorire il mutamento delle mansioni ogni volta che se ne presenti la necessità, sia per incoraggiare l’identificazione del dipendente con l’impresa;
- d) incrementare le alte professionalità. Solo poco di più del 10% della forza lavoro possiede una laurea. Il mestiere più diffuso in Italia è il rappresentante, mentre negli altri Paesi Ocse la professione che conta il più alto numero di presenze è quella del manager, dato che evidenzia una discrepanza formativa da colmare;
- e) accettare il principio “a uguale lavoro non coincide uguale remunerazione”;
- f) migliorare la qualità degli educatori.
Burocrazia efficiente e fedele
È necessaria una revisione del concetto di competitività, tanto caro alle pagine dei quotidiani. Essa va riferita non più al rapporto tra le imprese, ma tra sistemi-Paese. La sfida per l’Italia è di riuscire a raggiungere una maggiore efficienza anche nella produzione, oltre che nella distribuzione. Gli elementi di una maggiore efficienza produttiva e prosperità di un sistema economico sono svariati e si misurano anche nella modalità dell’agire sociale, in particolare accogliendo una visione ottimistica del futuro e stabilendo una condivisione di comportamenti che dovrebbe declinarsi in una burocrazia efficiente e in una forza lavoro istruita. D’altra parte, e per contro, le cause del declino economico di un Paese (per minore efficienza produttiva) sono da ricondurre alla preferenza per le attività finanziarie, che sono più remunerate e di maggior prestigio, alla scarsità delle risorse umane all’altezza dei compiti di una nazione industriale, alla preferenza per gli investimenti all’estero a causa della prudenza degli imprenditori verso i nuovi metodi produttivi, nonché alla gestione acefala dell’innovazione. La competitività è correlata anche al dinamismo del sistema economico, che non dipende più, come in passato, dall’iniziativa del singolo, ma dalle politiche industriali programmate, o comunque da una ben definita strategia per l’economia del Paese. Altri fattori di cui tener conto in questa ricetta sono la qualità della domanda, lo sviluppo demografico, la rapida obsolescenza del consumo, l’adozione di modelli organizzativi aziendali nuovi, la qualità della vita.
E veniamo alla tecnologia, altro tormentone. L’adagio inflazionato in base al quale la competitività sarebbe legata alla tecnologia, e quindi alla ricerca, è da ritenersi superato. Questo precetto è valso fino a quando le imprese che sviluppavano la tecnologia erano le sole sul mercato a proporre prodotti concepiti con tali innovazioni, mantenendo il più a lungo possibile una situazione di monopolio. Ma con il tempo il quadro è mutato. Un’impresa che dovesse creare una nuova tecnologia si vedrebbe già superata, dopo pochissimi mesi, da qualcun altro che la produrrebbe a costi più bassi. L’aumento della produttività, di conseguenza, dipende non tanto dall’opportunità di creare la tecnologia, ma dall’abilità nell’acquisirla e nel diffonderla all’interno del proprio sistema.
L’esempio più recente di questa valorizzazione è nel mercato della telefonia cellulare: l’Italia non è leader nella produzione, in questo campo, ma la diffusione degli apparecchi per la telefonia mobile all’interno dei nostri confini è la più alta d’Europa. Questo perché sono i Technology Takers e non i Technology Makers a prosperare nel nostro Paese. Questa modificazione importante stenta a farsi strada nelle menti dei politici europei, che si limitano a promuovere grandi progetti di ricerca sulle tecnologie, non pensando al marketing degli stessi, quindi all’aspetto della diffusione.
In estrema sintesi, questa dovrebbe essere la regola da tenere a mente: non c’è alcuna relazione tra il possesso della tecnologia e la capacità di lanciare rapidamente nuovi prodotti sul mercato, in quanto colmare il gap tecnologico non significa colmare il gap di mercato. La tecnologia può sempre essere comprata, mentre il potere di mercato va costruito, e quest’ultimo quindi deve assumere una priorità superiore.
Tuttavia essere un Paese Technology Taker non significa rinunciare completamente alla ricerca. Le imprese italiane stanno sempre più diventando venditrici di prodotti creati da altri e, sulla scorta di tale tendenza, la tecnologia potrebbe sfuggire presto di mano se si smettesse di farsene promotori. Sotto questo profilo l’Italia è un Paese competitivo su prodotti con scarso contenuto tecnologico.
Il vantaggio è strategico
Uno dei più evidenti problemi alla fonte di molti malesseri produttivi nostrani è l’eccessivo legame con le teorie economiche dell’Ottocento. Il libero scambio si fonda sul presupposto che la dotazione dei fattori caratterizzi ogni sistema economico, ma nell’ottica della teoria dei vantaggi comparati tale presupposto porrebbe su uno stesso piano tutti i sistemi economici e le loro imprese, che illusoriamente si ritiene possano competere ad armi pari nell’arena del mercato, poiché non si tiene conto del Fattore immateriale, che non è preso in considerazione da alcuna delle vecchie teorie.
La realtà mostra che i vantaggi non derivano dalla dotazione dei fattori, ma sono costruiti mediante appropriate politiche agricole, industriali e commerciali, tese alla creazione di tali vantaggi. Solo in questo modo è possibile prevalere nei confronti di sistemi economici con maggiori risorse di fattori produttivi: e tale differenza vincente è sempre da ricondurre al Fattore immateriale.
In Italia vi sono mercati improduttivi perfino dove la situazione di partenza è ottimale, se si considera che settori essenziali di beni di prima necessità, in cui primeggiamo, quali l’abbigliamento, gli alimentari e il turismo sono pochissimo valorizzati. A questo si deve aggiungere che per ragioni storico-culturali l’Italia è uno dei pochissimi Paesi in grado di fondere cultura e qualità: basti pensare alla magnificenza del nostro patrimonio artistico. Questo elemento ereditato dal passato permette di avere una sofisticazione altissima della domanda, sulla base di una qualità del gusto assai raffinata. Ciò nonostante, esso non è sfruttato. Un luogo, un monumento, o un vino unico sono generi di monopolio, ma per pensare e attuare strategie che ne consentano la valorizzazione occorre un Fattore immateriale di elevata qualità con un’ottica di lungo periodo che consenta strategie a livello di sistema.
È qui che si deve chiamare in causa l’azione di governo. Dovremmo essere, per “qualità della vita”, il primo Paese al mondo, e invece non siamo neanche tra i primi dieci; se l’Italia e l’Europa vorranno uscire dalle periodiche crisi congiunturali, dovranno progettare delle azioni di intervento di politica economica prima di tutto basate sul Fattore immateriale.
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